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Il cavallo è un soggetto preminente nelle tradizioni locali e, nel caso specifico, di Santu Lussurgiu. Mi sono già occupato (nel volume di G. Firinu e S. Ligios Sa Car­rela) del cavallo come mezzo di trasporto e di lavoro, di divertimento (corse per carnevale), come elemento in particolari manifestazioni religiose (àrdie). Ma altri aspetti si riferiscono o si collegano alla tra­dizione lussurgese - e certamente di altri paesi.

Prima di tutto il cavallo entra nel patrimonio lessicale con un numero di vocaboli e di termini superiori all'italiano. Abbiamo puddèrigu e pudderigheddu (puledro e puledrino), annirgu calarinu (puledro di un anno), tentorzu (puledro di due anni; in italiano sempre solo puledro); pruddèdu (soggetto giovane, indomito o domato; in italiano ancora puledro); achetu (cavallo non di grandi proporzioni) e caddu e ebba (cavallo e cavalla).

Nel lussurgese, e nel sardo in generale, il cavallo è presente nei modi di dire, nelle frasi idiomatiche. Ricordiamo: su lussurzesu est nàschidu a caddu (il lussurgese è nato a cavallo), per indicare l'innata predisposizione a cavalcare. Ancora, per dimo­strare il valore affettivo, l'importanza che riveste nella società, abbiamo: lussurzesu iscoa caddos (lussurgese scoda cavalli), per offesa nei riguardi di qualcuno, per sfregio, per ripagarsi di un torto subito - un modo certamente non simpatico, ma forse preferibile ad altri: fucilate, furti, omicidi e via. Infine, caddu de una manu (cavallo abituato a una sola mano, quella di chi lo monta) per indicare un individuo non disponibile alla sottomissione, al dialogo al rapporto umano aperto.

Per precisare il riferimento all'equino abbiamo il già citato calarinu (annirgu calarinu, per non confonderlo col soggetto bovino della stessa età).

Lo ritroviamo come similitudine o immagine: per qualificare un animale o anche un individuo di conformazione o proporzioni non adeguate al normale, diciamo che è caddinu (di tipo equino) come baca caddina (vacca di tipo equino) quando quella vacca non è svilupippata come dovrebbe nonostante l'alimentazione o per altri motivi. Se un animale o un individuo è di proporzioni eccessive rispetto allo status, usiamo il dispregiativo caddarzu.

È certamente più delicato e forse poetico il nome che diamo alla rosa canina o di macchia selvatica: rosa 'e puddèrigu (rosa di puledro).

L'italiano alare, il sostegno nel camino per poggiare lo spiedo o anche un ramo, un tronco di legno, in lussurgese è su caddu. Invece, su caddete o caddeto mi pare un prestito dall'italiano cavalletto.

Ci si può divertire a trovare altri esempi e similitudini, magari con riferimento alla ricca terminologia sulle parti del cavallo e sui mantelli (sa intina: àiu, murru, mùrtinu, murtinu uscradu, mèlinu, e così via).

Ma procediamo col cavallo. Il puledro o puledrino era normalmente tenuto al pascolo brado (iscapu) nella tanca serrada a muru, al sèguito della fattrice. A un anno, o anche prima o dopo secondo le circostan­ze, bisognava cominciare ad ammansirlo, abituarlo alla fune e alla cavezza (crabistu), a scozzonarlo (iscollare, fargli il collo). Gli si metteva la fune o su sogone al collo e lo si faceva girare in tondo, tenendo la fune nella mano sinistra e il frustino o una bac­chetta (una ertighita) sulla destra (pratica abituale dovunque). Talvolta qualcuno legava, in modo scorrevole, la fune a un palo o a un albero in uno spiazzo pianeg­giante e il puledro correva, stimolato dal padrone, strattonava, agitava la testa e il collo, scalciava, nitriva. E l'allevatore gli parlava, lo carezzava, cercava di renderlo tranquillo e lo abituava alla cavezza.

Attualmente il puledro, tenuto in stalla o al pascolo, è già ammansito e a sa manu sin dai primi tempi, dalla nascita, abituato alla cavezza e alla fune e a stare legato. Ma occorre egualmente scozzonarlo.

E veniva il tempo di domarlo, se il puledro (pruddèdu) non era stato venduto prima nelle fiere (sas paltzas) di San Leo­nardo, San Marco, San Mauro o, in anni oramai lontani, Santa Rughe di Oristano.

La doma (sa domadura) seguiva un particolare rituale, e alcuni momenti, come la ferratura, terminavano in allegra festic­ciola: una occasione di incontro, di lunghe conversazioni, di socialità fra amici, di bevute; e poteva terminare con una fìlumena (stato di leggera ebbrezza, dal nome sardo dell'usignolo) se non proprio con una musca (mosca = solenne sbronza).

mura2La prima ferratura era, ed è, un momento delicato e importante nella vita del giovane cavallo. Vi contribuivano il maniscalco (mastru 'e ferru), il domatore, l'allevatore (mere de su pruddèdu) e un gruppetto di amici. Il maniscalco prepara­va i ferri e i chiodi nella sua fucina (sa buttega), accorciava e sistemava bene lo zoc­colo del cavallo (s'ungra), eliminava il superfluo con l'apposito attrezzo, l'incastro (rasonita), lo lisciava, scaldava il ferro nella forgia (su fraile) e lo poggiava rovente sullo zoccolo: il maniscalco, avvolto da una cortina di fumo acre e intenso, osservava con perizia e adattava il ferro con qualche colpo di martello sull'incudine e quando lo riteneva giusto e a posto procedeva a fis­sarlo coi chiodi (tzoos), li ribadiva e to­glieva con le tenaglie le punte ribadite, con la raspa lisciava lo zoccolo poggiato su uno speciale treppiede, lo ingrassava e lucidava. Uno della comitiva, spesso un ragazzo che assisteva interessato, scacciava le mosche con una coda di cavallo legata a un basto­ne. Raramente, ma poteva accadere, per tenere quieto il puledro si usava il torcina­so (sa cariasa, la ciliegia, forse per similitu­dine con la forma che assumeva quella parte del naso).

muraOggi le procedure sono alquanto sem­plificate, con i ferri già pronti acquistati nei negozi. Ma a Santu Lussurgiu, e forse al­trove, resiste la tradizione della ferratura a caldo e del maniscalco che prepara i ferri, non credo i chiodi, secondo le vecchie regole; conosce bene se l'unghia è difettosa, se la muraglia o corona ha le setole (cuartu falzu) e adatta i ferri alle singole esigenze.

mura1Non è fuori luogo ricordare qualche maestro, qualche maniscalco del passato e del presente: fanno parte della piccola sto­ria della nostra comunità. Eccone alcuni: frades Beccos (tiu Antoni e tiu Antine Beccu), tiu Zuseppe Ispanu che vediamo ritratto nel libro Sa Carrela, tiu Tatanu Putzolu col figlio Antoni, Zuseppe Mura col figlio Tatanu vincitore per la mascalcia di prestigiosi premi nazionali e internazio­nali, Battistinu Licheri.

Un antico maniscalco, di cui non ricordo il nome, confratello (cunfrade) del Carmine (su Càrmene) cantava i Salmi o i Vespri o su Mazudinu con versetti a modo suo, adattati a immagini del mestiere. Can­tava: Una ferradura noe reales, unu ferru nou chimbe soddos.

Anche la doma (domadura) richiede­va, e richiede, capacità che non tutti pos­siedono: pazienza, intuito per stabilire un rapporto amichevole col puledro, corretta posizione, per non finire a terra alla prima sgroppata, anzitutto, e per insegnargli l'andatura con la cadenza giusta, il passo, il trotto, il galoppo, il portante o ambio; mani e gambe per farlo camminare, per le volte a sinistra e a destra e indietro, per fer­marlo, per riprendere in avanti. E attenzione, sguardo vigile ai movimenti della testa, delle orecchie, per le eventuali ombre che il cavallo suscettibile può intravedere: un ramo che si muove, una foglia che vola, un cane che attraversa la strada, un somaro che raglia.

Il sistema, quale si praticava da noi, e forse altrove, fino più o meno a una trenti­na d'anni fa e ora mi pare abbandonato, era un po' duro e barbaro. Richiedeva due cavalli: il puledro da domare montato dal domatore e un altro già domato (caddu 'e acollu) montato dall'allevatore o da un amico che si prestava. I due cavalli ben bardati e con i finimenti a posto venivano legati saldamente ai fianchi l'uno con l'altro (acollados). E così iniziavano a muo­vere i primi passi, con incitamenti e richia­mi a voce - il caratteristico pru dalla difficile trascrizione -, un leggero tocco di redini (cambas de sa brillia), una carezza al collo, un altrettanto leggero colpo di tallone ai fianchi. Il cavallo domato, con la guida di chi lo montava, doveva quasi insegnare al puledro l'andatura, stabilire un accordo. Dopo un breve periodo - giorni, settimane, dipendeva dal soggetto - s'acollu (l'accop­piamento) - era abbandonato e il puledro doveva andare, camminare, correre da so­lo, col domatore in sella orgoglioso (pomposu) che perfezionava il lavoro.

Quando lo riteneva pronto lo riconse­gnava al proprietario - se non era lo stesso a provvedere alla doma - che lo ricompensa­va con la somma pattuita o in altri modi o si accontentava di aver fatto un piacere a un amico.

In questi anni la doma segue criteri più semplici, più dolci: il puledro è già abi­tuato al morso, alla briglia, alla sella, a muoversi.

Chi erano i domatori? Talvolta lo stes­so allevatore, quando se la sentiva ed era capace e in forze; tal'altra persone appas­sionate che dedicavano parte della loro attività lavorativa, quando si presentava l'occasione, a questa delicata incombenza. Anche a questo proposito è giusto e doveroso ricordare - perché il ricordo, la memoria (s'amentu) è importante nella vita sociale e culturale - alcuni domatori scomparsi e ancora vivi nelle nostre con­versazioni. Ecco, mi sembra di averli qui accanto, di vederli passare a cavallo nella strada, di sentire e riconoscere il passo del cavallo, e la mia memoria (retentiva) certa­mente non li accoglie tutti: vedo Diurmitu Pische e Diurmitu Onni, tiu Antoni Borrodde, Zombachis e Diurmitu Pinna, Zuanne Onni (Istremu), Zuanne Onni de tiu Antoni, Mimiu Manca, Frantziscu Onni e altri che abbiamo conosciuto e sti­mato.

Quanti nomi de domadores bonos ho ascoltato nelle gioviali chiacchierate in magasinu davanti a un bicchiere di vino, da tiu Bachis Mura, da tiu Zuannànghelu Marzeddu, da tiu Nenardu Onni. E quanti nomi di cavalli, di stalloni, e quante àrdie e carrasegares e festas.

Per concludere, non bisogna dimenti­care che al mondo del cavallo non erano legati solo gli allevatori e i domatori; vi ruotava attorno - e vi ruota - una parte con­sistente dell'attività economica e sociale del paese.

Ho accennato ai maniscalchi. Ma altri mastros de ferru (fabbri) lavoravano morsi (imbucadorzos), staffe, speroni. I sellai (sedderis) fornivano, e forniscono, basti (imbastos), selle (seddas), briglie, cavezze (crabistos), cinghie (cringas) e sottocoda (latrangas). I sarti (mastros de pannu) l'abbigliamento, i calzolai gli stivali.

Ogni oggetto è lavorato con cura, con maestria, con abilità manuali non comuni, per la funzione cui è destinato, col gusto del bello e dell'eleganza. Ed è apprezzato e usato dai lussurgesi, dai forestieri e dagli appassionati continentali.

Una tradizione, per finire (pò dd'acabbare), che a Santu Lussurgiu vive da secoli, prosegue, va amata e sostenuta.

Antonio Cossu (In: «La grotta della vipera», n. 74 - Primavera 1996)

Ultimo aggiornamento ( Mercoledì 15 Febbraio 2017 07:10 )