Sabato, 04 Maggio 2024

Ricordo di Armando Gavagnin

Dieci luglio 1944. È passato un anno: sembra un giorno.

Conobbi Bartolomeo Melom nel periodo clandestino che precedette i quarantacinque giorni. Egli frequentava la Siderocernento, che fu la nostra sede naturale di riunione fino a quando la polizia non pose fine alla consuetudine. Ospitalissimo padron di casa era Attilio Casilli, che più tardi subì prigionia e tortura, il quale mi presentò il nuovo venuto come uomo di cui si sarebbe potuto fare qualcosa.

Divenimmo presto amici: un’amicizia che aveva come fondamento una completa stima reciproca.

Aderì senza apparente entusiasmo, senza abbandonare quella sua timida riservatezza, che nascondeva il gran fuoco ch’ egli aveva nell’ anima. Constatai in breve tempo di quale amore fosse circondato. Ingegnere ferroviario, egli considerava i suoi compagni di lavoro come fratelli e questi lo ricambiavano con un affetto che raramente viene concesso ad un superiore. Non è retorica questa: è una realtà che può essere testimoniata da quasi tutti i ferrovieri del Compartimento di Venezia.

Nei quarantacinque giorni io ebbi la dimostrazione ch’ egli era veramente il primo tra i ferrovieri: il primo per elezione spontanea, naturale, non discutibile, il primo perché il migliore. Si diede subito alla formazione di una organizzazione di ferrovieri e d’ accordo con i compagni degli altri partiti formò una lista di persone che avrebbero dovuto ricoprire cariche importanti nel Compartimento. In quella lista, ch’ io stesso presentai ai dirigenti ferroviari, il suo nome non c' era e invano feci insistenza perché figurasse.

Egli non ne volle sapere. Era stato iscritto al partito fascista e questo stabiliva una incompatibilità che, secondo lui, non poteva essere superata. Invano feci distinzioni, parlai di necessità e d’ inesperienza. Fu irremovibile e volle che fra i nomi indicati figurassero in prima linea quelli di persone mai iscritte al partito.

L’ otto settembre ripiombò l’ Italia nelle tenebre. 
Egli mi fu vicino nell’ azione ch’ io intrapresi assieme ai dirigenti degli altri partiti per forzare il Comando Militare Marittimo alla resistenza contro il tedesco. L’ esito negativo non lo scosse. Degno figlio della terra di Sardegna, che in sì gran copia diede all’Italia eroici combattenti, si preparò all’ azione diretta.

Da Roma vennero disposizioni di sabotare il materiale ferroviario al fine di ostacolare la calata teutonica. Per molti dirigenti ferroviari quelle disposizioni rimasero lettera morta, non per Meloni, che incominciò a creare una fitta rete dl uomini fidati, che diede subito risultati notevolissimi: le locomotive danneggiate, i carri carichi di bottino o di materiale da guerra lanciati su binari morti e saccheggiati; gli istradamenti sbagliati, l' ostruzionismo più intenso attuato.

Ma questo non bastava ancora. Egli mi parlò lungamente di varie possibilità che gli erano offerte dall’ ufficio che ricopriva. Possedeva i profili delle linee del Compartimento Veneto, i piani delle stazioni ed altri elementi preziosi ai fini del sabotaggio ferroviario. Desiderava esser messo in relazione coi dirigenti del movimento di resistenza armata, che già si annunciava.

Nella fase preparatoria dei Comitati di Liberazione io fui nominato rappresentante dei partiti veneziani ad una riunione da tenersi a Padova, ma feci in modo di esser libero, di andar io o di mandare la persona che meglio di qualsiasi altro avrebbe potuto rappresentarci. Quando ne parlai a Meloni fu entusiasta, ma rifiutò di andar solo. Egli era un tecnico - diceva - e non aveva alcuna autorità; fra i politici si sarebbe sperduto. Andammo a Padova assieme, ma il viaggio fu senza risultati. La casa di Concetto Marchesi nella quale doveva avvenire l’ incontro era sorvegliata dalla polizia. Avvertiti in tempo, tornammo. Bisognava aspettare la riunione seguente, ma Meloni scalpitava. Far presto, far presto, altrimenti era quasi inutile. Col suo parlare calmo e pieno di riguardi sapeva convincere. Ed allora pensai ad un’altra soluzione. Era tornato dall’ esiliò Silvio Trentin, e se non erro, proprio l’otto settembre avremmo dovuto festeggiarlo nella sala di un bel palazzo veneziano. Ma l’ uomo propone e Dio dispone, e quella festa, ahimè, subì tali mutamenti che non è qui il caso cli raccontare.

Trentin dovette scomparire non appena tornato alla luce e riapparve clandestinamente alla Mira nella villa del Dott. Fortuni dove egli, già esperto dell’ analogo movimento francese, stava gettando le basi della resistenza veneta all’ invasore. Gli parlai di Meloni e delle sue possibilità; ed egli volle vederlo al più presto. Fissai un nuovo appuntamento, ma quando tornai con Meloni non lo trovai perché partito per un improvviso convegno con alcuni capi militari nella zona del Grappa. Trovai però Matter, suo alter ego, ch’ era a giorno della faccenda e che già conosceva Meloni. Il contatto era stabilito.

Quel che avvenne poi ha dell’ incredibile. Meloni subì il fascino di Trentin che subito appariva a tutti personalità veramente superiore: questi lo mise in relazione con gli altri capi della resistenza ed allora cominciò una nuova fase di lavoro. Meloni attivò una regolare corrente di prigionieri inglesi che venivano concentrati a Padova o a Mestre e portati ad Udine con la scorta di ferrovieri sicuri, da dove proseguivano per raggiungere i partigiani slavi.

In questa e nelle sue altre imprese Meloni potè contare sul patriottismo e sull’ affetto dei ferrovieri veneti. Tutti erano con lui, ma sopra tutto, con Meloni alla testa, erano per I’ Italia.

L’ lng. Rizzi che gli fu compagno di carcere e di campo di concentramento, ma sul cui ritorno ardentemente si spera, il suo fido segretario Geom. Menegazzi, il capotreno Dall’ Osso, l’ Ing. ZennariPirami, l’ Ing. Sacco, i capistazione della linea Padova - Venezia - Udine e tanti altri che io ho conosciuto solo di nome perché esaltati da lui che parlava degli altri e dimenticava sé stesso, han dato moltissimo alla causa. S’è detto che i ferrovieri italiani hanno fatto il loro dovere nella guerra di liberazione, ma io credo che i ferrovieri veneti abbiano fatto ben di più.

L’ impresa dei prigionieri inglesi era però ben lungi dell’essere la sola. Stavano nascendo le prime formazioni partigiane, ma mancavano di tutto; specialmente di armi. E Meloni cercò tutto, specialmente armi. Si diede a farne incetta ricorrendo ai suoi ferrovieri, ai parroci, alle popolazioni, ai soldati che avevano prestato servizio nelle polveriere e nei forti, e costituì depositi d’ armi e di esplosivi, nei quali aggiungeva e prelevava secondo i bisogni, tenendo contatti con capi militari e politici che al suo aiuto e molto spesso ai suoi consigli di tecnico ormai abitualmente ricorrevano.

Per avere un’idea dell’ inmensità della sua opera basta pensare che egli fu arrestato il 4 novembre. Dall’ 8 settembre erano dunque passati meno di due mesi. In così piccolo periodo solo un uomo eccezionale poteva compiere tanto lavoro.

Ci fu un delatore? Se ne fa il nome. Voglia Iddio che non sia vero. Perché se fosse, mai si sarebbe compiuto più atroce delitto contro la Patria e contro l’ Umanità. E se fosse, abbia la giustizia corso inesorabile come inesorabile fu il delitto.

L'arresto di Meloni fece tremare molti cuori, ma soltanto per la sorte del fratello. Tutti sapevano che egli non avrebbe parlato. La speranza rinacque quando si seppe che non grave risultato avevano avuto le perquisizioni operate a casa ed in ufficio. Il segretario Menegazzi aveva fatto sparire sotto il naso dei tedeschi i fogli di mappa della riviera del Brenta, sui quali erano segnate le ville occupate dai tedeschi e precipitatosi poi a casa aveva completato l’ opera mettendo il superiore in grado di negare tutti gli addebiti. 

Ma gli indizi, erano importanti. Troppo vasta l' opera perché tutto sparisse senza lasciar traccia. La libertà gli fu promessa se avesse parlato. Ma se il corpo era fragile e sofferente, l’ anima era di ferro.

Ventitre giorni a S. Maria Maggiore, due mesi a Verona, poi l’ inferno: Dakau. E il 10 luglio 1944 la morte.

La notizia mi colse impreparato. Meloni era per me più che un fratello. Non esagero dicendo ch’ egli era spesso ansioso dl trovarsi con me e ch’ io — pur con le precauzioni imposte dai miei precedenti politici — mi trovavo benissimo con lui. Con quel che aveva fatto si considerava ancora un neofita, non conosceva la presunzione, aveva il pudore che è proprio dei puri. Continuava a trattarmi come un fratello maggiore, ed era di una discrezione esemplare in quanto lo riguardava personalmente, fors’ anche perché si era rimasti d’ accordo che ci si sarebbe detto solo il necessario. Ma quel che sapevo da lui e quel che sapevo da altri amici ferrovieri era sufficente per valutare l’opera e l'uomo.

La sua morte fu un grave colpo per la causa, ma fu un grave colpo anche per me. Sperai che le prime voci fossero infondate, poi venne la conferma: Meloni non era più. 

Tanto fu atroce questa conferma che rimasi senza respiro. Ero stato io ad immetterlo nella fornace della lotta clandestina, avevo assunto io quella tremenda responsabilità.

Ed oggi che conosciamo l'infamia, gli orrori e la vergogna dei campi di morte tedeschi il dubbio ritorna. Ma se pur ho peccato, ho peccato per amor di Patria, quello stesso amor di Patria per il quale Meloni e cento e cento altri hanno incontrato il martirio. E solo per questo martirio la Patria è redenta.

Armando Gavagnin

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