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La Sardegna deve molte delle sue conoscenze al Generale Alberto Ferrero della Marmora. Le sue opere sono ancora pietre miliari per gli studi archeologici, geologici, etnografici, faunistici, botanici, artistici e ambientali della Sardegna. Uno dei grandi esploratori dell'Ottocento che ha percorso in largo e in lungo l’Isola studiandola in ogni suo aspetto. 

Nel Montiferro, che egli chiama «il gigante dei monti ignei della Sardegna» e a Santu Lussurgiu in particolare, egli ha sostato a più riprese, ospite di Mad. Jeannette Terse moglie di Don Agostino Obino1, ma ospite anche di pastori, di squadre di cacciatori nelle zone più impervie, sulle cime più alte quando vi si recava per effettuare i rilievi necessari per la sua grande triangolazione dell'isola.

Il Della Marmora, come si è accennato, amava particolarmente il Montiferru: lo rileviamo oltre che dalle numerose visite, dai curiosi episodi che egli stesso ci racconta e che dimostrano la popolarità e l'affetto che il generale-scienziato riscuoteva tra la gente del Montiferru. Affetto sicuramente ricambiato dal Della Marmora al punto di venir meno - come nell'episodio che segue - ai suoi doveri di Commissario reale straordinario in Sardegna.


Ladri di sale

«...Alla base orientale di capo Mannu e non lontano dall'isolotto del Peloso sorgono le vecchie saline; un po' più all'interno, si trovano due stagni salati detti Is Benas e Sal'e Porcu, ma si da loro anche il nome generico di Saline del Peloso.
Durante gli ultimi vent'anni del passato regime questi luoghi, soprattutto gli ultimi due, furono teatro di deplorevoli disordini la cui impunità continua a dare tristi frutti.

Dietro il pretesto, vero o falso, dell'eccessivo costo del sale di monopolio regio e della sua mancanza negli spacci dei paesi dell'interno, alcuni pastori e altri abitanti delle province montuose e centrali dell'Isola, ai quali il sale è necessario per la stagionatura del formaggio e del maiale, si misero d'accordo fra loro; concertarono di partire individualmente dal loro paese, percorrendo strade poco battute e fuori mano, e di arrivare in un momento prestabilito alle saline, dove la regia amministrazione faceva raccogliere il sale in mucchi sorvegliati appena da pochi addetti alle dogane.
Queste persone, quasi tutte armate e in gran numero, riempivano allora i sacchi di sale, a dispetto della guardia degli addetti, qualche volta con atti di violenza e persino spargimento di sangue; dopo aver caricato i cavalli, se ne tornavano a casa come quando ne erano partiti, e cioè disperdendosi e passando di notte nei paesi abitati e in quelli dove poteva esserci un presidio di forza pubblica.
Tutto ciò accadeva senza che le autorità, per prime, volessero rimediare efficacemente a simili atti che vanno contro le regole della società civile. È vero che in un luogo isolato come le saline, lontano dall'abitato, malsano al massimo grado e sguarnito della necessaria forza pubblica, un simile colpo di mano era più facile da eseguire che da reprimere; d'altra parte le autorità militari recalcitravano all'idea di esporre la salute e la vita dei soldati (intendo sotto l'aspetto sanitario) per un po' di sale, sostanza così abbondante lungo tutte le coste dell'Isola.
I doganieri, sparpagliati sull'intero litorale e in gran parte indeboliti dalle febbri malariche, non erano tanto numerosi da rappresentare, in questo luogo funesto, una forza armata in grado di contrastare adeguatamente il saccheggio organizzato del sale.
Il fatto è che tali rapine, anziché cessare, si rinnovarono ogni anno su scala più grande e con maggiore audacia, al tal punto che, anziché sparpagliarsi una volta fatto il colpo, e passare per strade secondarie attraversando di notte i paesi abitati, i ladri diventarono audaci e, sfidando l'autorità, finirono col tornarsene a casa tutti insieme e in pieno giorno lungo la strada più frequentata. Davano così alle popolazioni locali un esempio molto pericoloso, senza che i rari cavalleggeri, sparsi nei paesi principali, potessero contrastarli. Questi ultimi, distribuiti in numero di quattro o cinque per stazione, erano costretti a far finta di non accorgersi del passaggio delle bande, limitandosi ad istruirne le autorità, che dal canto loro, subivano l'affronto in silenzio.

È precisamente la situazione in cui mi trovai nel 1849, quando giunsi in Sardegna in qualità di Commissario reale straordinario, munito di pieni poteri ma del tutto sprovvisto di forze garanti dell'ordine pubblico, perché tutte le truppe si trovavano sul Continente, impegnate nella guerra che si era appena conclusa così sfortunatamente a Novara.

Avendo compiuto nel mese di maggio un giro d'ispezione nell'Isola per questioni di servizio, nell'esercizio delle mie funzioni ero partito di mattina presto dal paese di Santulussurgiu per concludere la giornata a Milis; ero a cavallo e in uniforme, con una scorta di sei o sette cavalleggeri e accompagnato da un seguito abbastanza numeroso, composto di diversi signori e ufficiali della guardia nazionale della zona; secondo l'usanza del paese, costoro vollero così rendermi omaggio.
Due cavalleggeri della scorta marciavano in avanscoperta, con la carabina in pugno, come prescritto quando si trattava di accompagnare una massima autorità militare; tutto ciò non impedì che a una svolta, in un punto in cui la strada diventa strettissima e scoscesa, ci venisse incontro una banda numerosa, di circa 60 persone tutte a cavallo, armate e con in sella, messo di traverso, un grande sacco pieno di una sostanza dura e ruvida. Era precisamente una truppa di saccheggiatori delle Saline del Peloso, che se ne tornavano a casa con la provvista di sale, fatta nei mucchi accumulati dagli operai dell'amministrazione.

Siccome noi camminavamo in senso inverso lungo il sentiero incassato dove potevano incrociarsi a malapena due cavalieri, non uno solo dei sacchi, messi di traverso sul cavallo di quegli uomini, passò senza sfregarmi il ginocchio, senza strusciare cioè contro la prima autorità dell'Isola, la quale si trovò ridotta a rendere il saluto e l'augurio di buon viaggio, che nessuno di quegli individui mancò di rivolgerle, spostando educatamente la canna del fucile che portava di traverso, alla moda del luogo...».


I resti del Castello di Montiferru nei pressi di Cuglieri ( Fotogallery >> )

«... Vicino a Cuglieri si trova l'antico castello di Montiferru, che ha preso il nome dalla grande montagna. Per arrivarci si segue un sentiero più o meno in piano, lungo il quale si incontra dapprima, a dieci minuti dal paese, il convento dei Cappuccini posto, come tutti i conventi di quest'ordine, in un sito assai pittoresco. Un po' più in là dei Cappuccini c'è la fontana pubblica e in pochi minuti, nella stessa direzione, si vede innalzarsi una cima isolata, sulla quale ci sono le rovine del castello di Montiferru.
II monte sul quale è stato costruito il castello è formato da roccia basaltica grigia che mostra in qualche punto la divisione in prismi.
Il castello di Montiferru. o piuttosto di Montiverro, sembra sia stato costruito da Ittocorre, fratello di Barisone di Torres che viveva attorno al 1186. Era un luogo di frontiera tra il giudicato di Torres, al quale apparteneva, e quello di Arborea. Nel 1294 la villa di Verro, come la chiama il Roncioni, fu ripresa dai Pisani, con molti altri castelli, ai fratelli Guelfo e Lotto della Gherardesca, figli dello sventurato conte Ugolino. Nel 1300 il castello fu dato in pegno dal marchese Malaspina ad Andrea e a Mariano d'Arborea, che lo possedevano nel 1308, così come il castello di Serravalle di Bosa e quello di Montacuto.
Nel 1328 il re Alfonso d'Aragona, coll'avvento al trono, ne confermò il possesso a Ugone d'Arborea. Nel 1354 Mariano d'Arborea, ribellatosi al re Pietro il Cerimonioso, occupò il castello che manteneva ancora, nonostante gli accordi, nel 1355. Nel 1417 fu dato, a titolo di feudo col paese di Cuglieri, da Alfonso V a Guglielmo Montagnana, che nel 1426 lo vendette a Raimondo Zatrillas.
Oltrepassato il castello, ci si trova davanti e a fianco una salita abbastanza ripida, sulla quale è ricavata la pretesa "strada" di Santulussurgiu, che è piuttosto un sentiero disastrato, in mezzo a una bella foresta che solo i cavalli sardi riescono ad attraversare con l'agilità e l'arrendevolezza che li caratterizza. Il cammino conduce quasi in cima al monte per poi scendere subito più rapidamente sull'altro versante. In quasi due ore e mezza di salita e discesa si può così raggiungere il grande villaggio di Santulussurgiu, dove si arriva dopo una salita ripidissima, trovandosi in un posto ombreggiato da folti e vigorosi castagni.
Dal castello di Montiferru, più a sud, si può prendere un altro sentiero, più ripido e disagevole del precedente, per andare verso una delle cime più alte della montagna; poco frequentato, esso attraversa una grande foresta formata quasi tutta da lecci. Si da a questa cima il nome di Monte Entu ("Monte del Vento") perché è realmente esposta a tutti i venti; ha una forma più o meno conica, analoga a quella del monte del castello e anch'essa composta da roccia basaltica grigia con eguale tendenza alla divisione in prismi irregolari.

Questo punto domina parecchie altre cime vicine, tutte della stessa natura e che hanno più o meno la stessa forma. La sua altitudine è di 1.015 metri sul livello del mare. Da qui si vede svilupparsi gran parte della costa occidentale dell'Isola, dai promontori della Frasca e di San Marco fino a capo Caccia, non lontano da Alghero. Vale la pena di offrirsi una veduta del genere con un'ascensione in verità un po' faticosa, ma sempre all'ombra e che dura solo poco più di un'ora. Del resto, è il cammino seguito dai cacciatori del paese che fanno delle pendici del Monte Entu e dei luoghi circostanti la meta delle battute più produttive alla grossa selvaggina. Così, un giorno che stavo abbarbicato sulla vetta (avendo verso ovest un precipizio di quasi cento metri ai miei piedi), occupato a misurare gli angoli col teodolite, mi è capitato di sentire all'improvviso un gran baccano prodotto da più voci umane e dal calpestio di numerosi cavalli; proveniva dalla foresta che vedevo, sotto di me, a volo d'uccello. Subito mi sentii chiamare per nome; le grida provenivano da una folta compagnia di cacciatori di Cuglieri che mi avevano riconosciuto attraverso uno spiraglio nel verde. A loro avviso, nessun altro al di fuori di me sarebbe stato capace d'andare ad appollaiarsi e di restare per delle ore sulle cime più alte del loro paese con degli strumenti luccicanti; mi avevano riconosciuto, di conseguenza, molto meno dalla figura che non dal luogo in cui stazionavo, dall'attrezzatura, e mi invitavano con gesti a unirmi a loro. È ciò che feci al tramonto, quando finii le operazioni di quella giornata; non tardai a trovarli senza allontanarmi troppo dalla stazione e divisi con loro la selvaggina uccisa, la cena e il bivacco, trascorrendo così in allegra e chiassosa compagnia una notte che mi ero già rassegnato a passare su quella cima, molto più tranquillamente, con la mia guida.


Il Punto trigonometrico lasciato dal Della Marmora sulla cima di Monte Urtigu (m. 1050)

A proposito del Monte Entu, devo aggiungere che, se la vista che si gode verso sud, verso ovest e anche in parte verso nord. è molto estesa, essa è al contrario, molto limitata verso est. Lì vicino la montagna s'innalza ancora di oltre 40 metri e termina con una specie di pianoro un po' ondulato, il cui punto culminante raggiunge l'altezza di 1.050 metri sul livello del mare; questa cima si chiama Monte Urticu, e siccome da lì avrei potuto scorgere molti altri miei segnali piazzati sulle differenti vette della parte centrale dell'Isola e visto che sul Monte Entu sarebbero restati invece nascosti, fu proprio in quel punto che sistemai un grande segnale, di cui rimangono probabilmente ancora dei resti.

È sufficiente dire che da qui distinsi verso nordovest l'isola dell'Asinara e verso sudest la torre di San Pancrazio di Cagliari e la penisola di Sant'Elia; tra questo luogo e l'Asinara c'è una distanza che supera i 108 chilometri in linea retta, mentre la torre di San Pancrazio ne dista 120.


sa rocca e su paraMonte Pertosu (Sa rocca 'e su para)

Dal Monte Urticu fino a Santulussurgiu la discesa si fa su un suolo abbastanza vario, formato da rocce ignee, ma quella che costituisce il nodo principale della montagna è feldspatica, biancastra e tenera: è una specie di dolomite più che una vera lava. La considero la roccia fondamentale di tutto il grande massiccio e più antica di tutte le altre che la ricoprono a guisa di colata, o di manto. In questa roccia biancastra si aprono profondi crepacci che mettono a nudo la composizione mineralogica della montagna e che forniscono molte informazioni, a causa delle differenti specie di filoni che le attraversano in tutti i sensi. Sono anzitutto vene o noduli di calcedonio grossolano, diaspro e cornalina; inoltre dei dicchi più recenti che attraversano questi ultimi e sono formati da rocce basaltiche. Uno zoccolo di questo basalto nero si leva non lontano da Monte Urticu e forma una vetta, detta Monte Pertuso, la cui altezza non supera i 992 metri.

Tutta la cima è coperta in gran parte di arbusti quali il lentisco e il corbezzolo ma è piuttosto spoglia di grandi alberi; forse non doveva essere così in passato, e probabilmente il fuoco dei caprai incoscienti è passato da lì come per quasi tutte le montagne dell'isola. Tra le piante interessanti che crescono in questo luogo mi limiterò a citare l'elleboro (Helleborus lividus Ait. H. Kew.), che vi prospera; nel paese gli si da il nome di sibidillia perché le foglie, secche e ridotte in polvere, sono utilizzate per provocare lo starnuto, divertimento tanto più sconsigliabile in quanto una forte dose che facesse starnutire a lungo sarebbe pericolosa. I fitti castagni che si incontrano al rientro da Santulussurgiu, sono belli quanto quelli di Aritzo.


Costumi di Santu Lussurgiu
Acquerello di N. Tiole

Prima dell'ingresso del paese, sempre all'ombra dei castagni, c'è una fontana pubblica con acqua ottima e abbondante; durante il giorno non manca mai d'animazione per la presenza di tante donne e di ragazze che continuamente vanno a riempire le brocche dalle belle forme antiche, che portano sulla testa con tanta più grazia in quanto esse stesse hanno visi interessanti, un'aggraziata figura e una certa aria disinvolta e decente che è loro propria. Il costume, del resto, è di una grande semplicità perché non portano, come le donne di molte altre parti dell'Isola, gonne di stoffa rossa o gialla. Le donne di Santulussurgiu sembrano sempre in lutto: le gonne a mille pieghe sono fatte con del furese nero, che tessono da sole2; portano in testa un grande fazzoletto blu legato sotto il mento. Questo costume è tipico degli abitanti del paese per cui li si riconosce da lontano a prima vista. Anche gli uomini sono vestiti di furese nero e inoltre indossano la best'e peddis, la famosa mastruca dei loro antenati Sardi Pelliti. Le gambe sono protette da ghette di cuoio naturale, senza dubbio a causa delle spine che abbondano nel territorio; quasi tutti hanno addosso una corda a più giri messa a tracolla. È una specie di lazo, arma terribile degli americani d'origine spagnola. I lussurgesi se ne servono con la stessa abilità ma solo per trattenere i cavalli e le bestie con corna, che allevano con particolare cura. Questa, del resto, è la loro professione abituale, che praticano molto più dell'agricoltura.


Donna lussurgese con una stoffa di orbace

In questo paese si contano molte famiglie nobili; qualche anno fa vi conobbi una signora parigina sposata a un signore del posto, alla quale non ho mai mancato di far visita tutte le numerose volte che i miei lavori mi hanno condotto a Santulussurgiu.(3) 
Misurata alla porta della parrocchiale, l'altitudine è di 502 metri sul livello del mare; l'abitato è in una specie di depressione o di conca naturale attorno al quale sorgono diversi quartieri, che si guardano l'un l'altro, per così dire, e che sono formati da case allineate ad anfiteatro in modo tale che, quando ci si trovi per la prima volta in mezzo, si avrebbe quasi bisogno di una bussola per orientarsi.
I bordi della conca sono così alti e sembrano talmente uniti tra loro che non si sa più, quando ci si trova al centro del paese, da dove si sia entrati ne da dove si potrà uscire.
Ciò ha fatto dire che Santulussurgiu è costruito su un cratere vulcanico, cosa non del tutto esatta.
È vero che il paese sta ai bordi di una grande depressione in una montagna di origine ignea, ma l'infossamento è un immenso crepaccio aperto nello antico nucleo della montagna, piuttosto che un vero e proprio cratere dal quale sarebbe uscita la lava.
Il solo punto nel quale ho creduto di scorgere tracce della fuoriuscita di materia fluida si trova presso la cappella di San Giuseppe che domina il paese verso est; la presenza in quel luogo di scorie fresche basaltiche e la forma arrotondata della collina con la chiesa mi inducono a riconoscervi uno di quei poggi o coni "parassiti", che cingono in molti punti la base e i fianchi di questa montagna.
La materia basaltica deve essere uscita principalmente da lì, sia con vere e proprie colate di lava, sia in semplici frammenti di scorie che si sono accumulati attorno a una piccola apertura, attraverso la quale sono venuti alla luce dal seno della terra. È così che si sono parzialmente formate queste collinette arrotondate, quasi tutte doppie in cima o incavate su un lato, la cui forma si ripete in più punti con una tale rassomiglianza che si direbbero fatte tutte con lo stesso stampo. 

Non si può uscire da Santulussurgiu senza affrontare una salita; se si segue il corso d'acqua che bagna il paese, lo si vede scorrere, lungo un crepaccio, verso la pianura. Il cammino che costeggia il ruscello è pessimo, eppure è l'unico che consenta il passaggio di un carro. Esso conduce al villaggio di Bonarcado da cui ci si può recare a Milis e nel Campidano di Oristano. Da qualunque altra parte si voglia andare, uscendo da Santulussurgiu, bisogna sempre inerpicarsi per una salita ripidissima lungo una parete del grande crepaccio in cui si trova il paese. Per andare ad Abbasanta o a Paulilatino, bisogna raggiungere la cappella di San Giuseppe; la salita verso Cuglieri è più impegnativa perché bisogna giungere sulla cresta della montagna e ridiscendere poi lungo il versante occidentale. Se infine ci si voglia dirigere a nord, occorre anzitutto affrontare una salita piuttosto ripida nel paese stesso, poi seguire un cammino più o meno in piano, che conduce alla chiesa campestre di San Leonardo.


Quest'ultima, menzionata dal Fara, apparteneva in passato all'ordine di San Giovanni di Gerusalemme e si trovava ai confini del giudicato di Torres. La prima menzione della chiesa risale all'anno 1355; sotto i Pisani era un bailo dipendente dal priorato di Pisa ed è in quest'epoca che Guelfo, figlio del famoso conte Ugolino della Gherardesca, morì di malattia e dolore nei paraggi di un luogo, detto Siete fuentes o "Sette Fontane" a causa delle sette sorgenti che sgorgano dal suolo vicino. Anche il priorato, poi commenda, portava il titolo di Siete fuentes. Esso si caratterizzava per l'esser riservato agli Italiani e precluso ai Sardi, cosa che oggi costituirebbe un controsenso dopo la fusione dell'Isola con le province continentali del Regno di Sardegna. Tale disposizione fece sì che sotto il governo spagnolo, nel XVII secolo, le Corti generali dell'Isola si adoperarono perché ai sudditi sardi fosse possibile accedere all'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Sotto il governo dei principi di Savoia la commenda fu quasi sempre data a persone native delle province del Continente; poi, dall'anno 1822, per far fronte alle spese di pubblica utilità, le rendite furono amministrate in una cassa a parte. 
La chiesa è molto antica ma non offre niente di particolare; è officiata da un cappellano nominato dal re che vi celebra la messa nei giorni di festa. Gli abitanti di Santulussurgiu hanno una venerazione tutta speciale per San Leonardo; vicino alla chiesa e alle sette fontane ci sono alloggi per i fedeli che vanno a farvi la novena; ci sono anche delle specie di botteghe, o piuttosto scompartimenti con tettoia e parapetto da cui si affacciano i venditori di dolci e anche i commercianti che vi espongono i diversi prodotti, durante la fiera che si svolge contemporaneamente alla festa del santo.
A un'ora di distanza dalla chiesa di San Leonardo, nella stessa direzione, attraverso un lungo sentiero tracciato nella foresta si raggiunge un'altra collinetta tondeggiante, dov'è la chiesa rurale di Sant'Antonio. Nei pressi si trova un punto da cui nel passato sembra sia fuoriuscita una grande colata di lava basaltica, direttasi poi verso ovest per formare una falda che ha prima una leggera e dolce inclinazione, ma che si appiana vicino al mare. Questa grande colata forma le pendici nordoccidentali del Montiferru e si estende a ovest di Cuglieri, dove è spaccata da profondi crepacci. È probabilmente dallo stesso luogo presso Sant'Antonio che è fuoriuscita l'altra colata della stessa lava, che forma una specie di declivio nei territori di Tresnuraghes, Sagama e Suni.
Tutta la regione descritta, a partire da San Leonardo e dal territorio di Santulussurgiu per andare a Sant'Antonio e scendere verso Scano Montiferro a ovest, era rivestita da una magnifica foresta; ma da qualche anno la si è fortemente devastata con tagli a più riprese, operati con pochissima cura; sono state abbattute tutte le querce (Quercus robur) che potevano servire come legno da costruzione e non sono rimasti che i lecci (Quercus ilex).
La foresta di Scano Montiferro, che ho conosciuto ancora molto bella, fu sfruttata nel 1821 da speculatori genovesi che non trassero dai tagli un profitto pari al danno che vi hanno causato (questo può dirsi in generale di tutte le analoghe operazioni fatte in altre regioni dell'Isola e che si continuano a fare oggi). La difficoltà più grande per i concessionari della foresta di Scano fu quella di trasportare gli imponenti tronchi di legno fino alla costa più vicina, povera di approdi. I padroni delle navi chiedevano un prezzo enorme per il noleggio del trasporto del legno in Continente, a ragione delle difficoltà d'attracco sulla costa e del pericolo di affondare per il carico eccessivo; ciò non ha impedito che molti naufragi avvenissero prima che il carico fosse completato. Un'ulteriore forte spesa fu sostenuta per aprire nella foresta, lungo l'intero tragitto fino al mare, alcune strade percorribili dai carri, per la cui costruzione si utilizzarono carri fabbricati espressamente, perché quelli del paese risultano del tutto inadeguati a un servizio del genere; probabilmente non li si seppe o non li si volle utilizzare per il trasporto. Il risultato fu il fallimento di una speculazione che, in pura perdita, provocò come effetto tangibile la devastazione di una delle più belle foreste che si possano immaginare.
Il villaggio di Scano Montiferro ... è interessante per il mineralogista e il geologo a causa delle quantità di belle agate, cornaline e diaspri che si trovano, per così dire, nel paese stesso. Come a Cuglieri, queste pietre si trovano, in vene e noduli, in una roccia che muta sia in trachite argillofira rossastra, sia in una specie di dolomite. Il Monte Passa ("Monte di Paglia") e un'altra collina con la chiesa di Santa Croce, vicino al villaggio, sono formati o almeno ricoperti di lava basaltica.
È evidente che facendo il giro di una grande parte delle pendici orientale e settentrionale del Montiferru ho finito per ricondurre il lettore ai piedi del paese di Cuglieri; è da lì che ritroveremo la strada diretta da Oristano a Bosa, che avevamo lasciato a Santa Caterina di Pittinuri per andare a visitare i due popolosi paesi di Cuglieri e Santulussurgiu, attraversando il colosso vulcanico sardo, da ovest ad est».



 

1 Mad. Jeannette Terse della casa Bancaria Terse; un matrimonio combinato in casa Target, posto che la banca predetta era legata alle industrie di Bougnart e Prevost e nelle quali doveva avere interessi anche Don Michele Obino. Dopo qualche anno di permanenza a Parigi, Don Agostino rientrò a Santulussurgiu con la sua sposina, che divenne amica di Alberto La Marmora suo ospite gradito durante le rilevazioni geodetiche che richiesero lunghe soste a Santulussurgiu, tra il 1828 e il 1832. Cfr. CHERCHI PABA F., Don Michele Obino e i moti antifeudali lussurgesi (1896 – 1803), Ed. Fossataro, Cagliari, 1969, p. 250 e in Nota 410.

2 Esse sono laboriosissime ogni casa ha un mestiere. Si dice che questo villaggio fornisca annualmente più di 1500 pezze di albagio ch’è il più apprezzato in tutta l’isola, e del quale gli abitanti del luogo fanno un commercio molto attivo. Gli uomini si occupano pure in opere di falegname, facendo dei pregiati lavori di mobiglie domestiche, di incisioni, e bassi rilievi, come pure di fiaschette di campagna. Il commercio si è accresciuto, perché la strada mette in comunicazione con Oristano, passando per Bonarcadu, Seneghe e Milis.

3 In questo villaggio vi era un Convento di Osservanti che si vuole fondato nel 1470 dal beato Bernardino da Feltre venuto in Sardegna. Nel 1842 si principiò a fabbricare un collegio di PP. Scolopi secondo i lasciti che aveano disposti due ricchi proprietari del Villaggio, Pietro Paolo Carta e Giov. Andrea Meloni...


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