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Le Lettere dal carcere, uno dei più splendidi e commoventi epistolari della nostra letteratura, hanno messo in luce le qualità di scrittore di Gramsci, la sua intensa umanità, lo straordinario equilibrio con cui seppe affrontare le sofferenze del carcere.

In questa cernita sono riportati alcuni frammenti delle lettere a Tania (Tat'jana - Tatiana), cognata di Antonio, ed in particolare quelli nei quali racconta il suo periodo di studi ginnasiali a Santu Lussurgiu (1905 - 1908).


Lettera del 26 dicembre 1927

Carissima Tania,

... Invece ti voglio raccontare un episodio quasi natalizio della mia fanciullezza, che ti divertirà e ti darà un tratto caratteristico della vita dalle mie parti. Avevo 14 anni e facevo la terza ginnasiale a Santu Lussurgiu, un paese distante dal mio circa 18 kilometri e dove credo esista ancora un ginnasio comunale in verità molto scalcinato. Con un altro ragazzo, per guadagnare 24 ore in famiglia, ci mettemmo in istrada a piedi il dopopranzo del 23 dicembre invece di aspettare la diligenza del mattino seguente. Cammina, cammina eravamo circa a metà viaggio, in un posto completamente deserto e solitario, a sinistra, un centinaio di metri dalla strada, si allungava una fila di pioppi con delle boscaglie di lentischi. Ci spararono un primo colpo di fucile in alto sulla testa; la pallottola fischiò a una decina di metri in alto. Credemmo a un colpo casuale e continuammo tranquilli. Un secondo e un terzo colpo più bassi ci avvertirono subito che eravamo proprio presi di mira e allora ci buttammo nella cunetta, rimanendo appiattati un pezzo. Quando provammo a sollevarci, altro colpo e così via per circa due ore con una dozzina di colpi che ci inseguivano mentre ci allontanavamo, strisciando, ogni volta che tentavamo di ritornare sulla strada. Certamente era una comitiva di buontemponi che voleva divertirsi a spaventarci, ma che bello scherzo, eh? Arrivammo a casa a notte buia, discretamente stanchi e infangati e non raccontammo la storia a nessuno, per non spaventare in famiglia, ma non ci spaventammo granché perché alle prossime vacanze di carnevale il viaggio a piedi fu ripetuto senza incidenti di sorta. Ed ecco che ti ho riempito quasi interamente le quattro pagine!

Ti abbraccio teneramente.

Antonio

Ma la storia è proprio vera; non è affatto una storia di briganti!


Lettera del 9 aprile 1928

Carissima Tania,

... Io avevo spiccatissime tendenze per le scienze esatte e per la matematica, da ragazzo. Le ho perdute durante gli studi ginnasiali perché non ho avuto insegnanti che valessero un poco più di un fico secco. Cosi dopo il 1° anno di liceo, non ho più studiato matematica, ma ho invece scelto il greco (allora c'era l'opzione); però in 3° anno di liceo ho dimostrato improvvisamente di aver conservato una «capacità» notevole. Succedeva allora che in 3° anno di liceo bisognava, per studiare la fisica, conoscere gli elementi di matematica che gli alunni che avevano optato per il greco, non avevano l'obbligo di sapere. Il professore di fisica, che era molto distinto, si divertiva un mondo a metterci in imbarazzo. Nell'ultimo interrogatorio del 3° trimestre, mi propose delle quistioni di fisica legate alla matematica, dicendomi che dalla esposizione che ne avrei fatto sarebbe dipesa la media annuale e quindi il passaggio di licenza con o senza esame: si divertiva molto a vedermi alla lavagna, dove mi lasciò tutto il tempo che volli. Ebbene, rimasi mezz'ora alla lavagna, mi imbiancai di gesso dai capelli alle scarpe, tentai, ritentai, scrissi, cancellai, ma finalmente «inventai» una dimostrazione che fu accolta dal professore come ottima, quantunque non esistesse in nessun trattato. Questo professore conosceva mio fratello maggiore, a Cagliari, e mi tormentò con le sue risate ancora per tutto il tempo della scuola: mi chiamava il fisico grecizzante.
Carissima Tania, bando agli avvilimenti e scrivimi spesso.

Ti abbraccio.
Antonio

Lettera del 2 giugno 1930

Carissima Tatiana

... Carissima, voglio scriverti di una quistione che ti farà arrabbiare o ti farà ridere. Sfogliando il piccolo Larousse mi è ritornato alla memoria un problema abbastanza curioso. Da bambino io ero un infaticabile cacciatore di lucertole e serpi, che davo da mangiare a un bellissimo falco che avevo addomesticato. Durante queste cacce nelle campagne del mio paese (Ghilarza), mi capitò tre o quattro volte di trovare un animale molto simile al serpe comune (biscia), solo che aveva quattro zampette, due vicino alla testa e due molto lontane dalle prime, vicino alla coda (se si può chiamare così): l'animale era lungo 60-70 centimetri, molto grosso in confronto della lunghezza, la sua grossezza corrisponde a quella di una biscia di 1 metro e 20 o un metro e 50. Le gambette non gli sono molto utili perché scappava strisciando molto lentamente. AL mio paese questo rettile si chiamava scurzone, che vorrebbe dire scorciato (curzu vuol dire corto) e il nome si riferisce certamente al fatto che sembra una biscia scorciata (bada che c'è anche l'orbettino (1), che alla poca lunghezza unisce la proporzionata sottigliezza del corpo).

A Santu Lussurgiu dove ho fatto le tre ultime classi del Ginnasio, domandai al professore di storia naturale (che veramente era un vecchio ingegnere del luogo) come si chiamasse in italiano lo scurzone. Egli rise e mi disse che era un animale immaginario, l'aspide o il basilisco, e che non conosceva nessun animale come quello che io descrivevo.

I ragazzi di Santu Lussurgiu spiegarono che nel loro paese scurzone era appunto il basilisco, e che l'animale da me descritto si chiamava coloru (coluber latino), mentre la biscia si chiamava colora al femminile, ma il professore disse che erano tutte superstizioni da contadini e che le biscie con le zampe non esistono.

Tu sai come faccia rabbia a un ragazzo sentirsi dar torto quando invece sa di aver ragione o addirittura essere preso in giro come superstizioso in una quistione di cose reali; penso che a questa reazione contro l'autorità messa al servizio dell'ignoranza sicura di sè stessa è dovuto se ancora mi ricordo l'episodio.

Al mio paese non avevo mai sentito parlare delle qualità malefiche del basilisco-scurzone, che però in altri paesi era temuto e circondato di leggende.

Ora appunto nel Larousse ho visto nella tavola dei rettili un sauriano, il seps, che è appunto una biscia con quattro zampette (il Larousse dice che abita in Spagna e la Francia meridionale, è della famiglia degli scincidés il cui rappresentante tipico è lo scinque (forse il ramarro?) La figura del seps non corrisponde molto allo scurzone del mio paese: il seps è una biscia regolare, sottile, lunga, proporzionata, e le zampette sono attaccate al corpo armonicamente; lo scurzone invece è una animale repellente: la sua testa è molto grossa, non piccola come quelle delle bisce; la «coda» è molto conica; le due zampette davanti sono troppo vicine alla testa, e sono poi troppo lontane dalle zampe di dietro; le zampe sono bianchicce, malsane, come quelle del proteo e danno l'impressione della mostruosità, dell'anormalità.

Tutto l'animale, che abita in luoghi umidi (io l'ho sempre visto dopo aver rotolato grandi sassi) fa una impressione sgraziata, non come la lucertola e la biscia, che a parte la repulsione generica dell'uomo per i rettili, sono in fondo eleganti e graziose. Vorrei ora sapere dalla tua sapienza di storia naturale, se questo animale ha un nome italiano e se è noto che in Sardegna esista questa specie che deve essere della stessa famiglia dello seps francese. E' possibile che la leggenda del basilisco abbia impedito di ricercare l'animale in Sardegna; il professore di Santu Lussurgiu non era uno stupido, tutt'altro, ed era anche molto studioso; faceva collezioni mineralogiche ecc. eppure non credeva che esistesse lo «scurzone» come realtà molto pedestre, senza alito avvelenato e occhi incendiari. Certo questo animale non è molto comune: io l'ho visto non più di una mezza dozzina di volte e sempre sotto dei massi, mentre biscie ne ho viste a migliaia senza bisogno di muovere sassi.

Cara Tatiana, non arrabbiarti troppo di queste mie divagazioni.
Ti abbraccio teneramente

Antonio

Lettera del 12 settembre 1932.

Quando ero al ginnasio (un piccolo ginnasio comunale a Santu Lussurgiu, in cui tre sedicenti professori sbrigavano con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle 5 classi) abitavo in casa di una contadina (pagavo 5 lire mensili per l'alloggio, la biancheria del letto e la cucinatura della molto frugale mensa) che aveva una vecchia madre un pò scema, ma non pazza, che appunto era la mia cuoca e governante, la quale ogni mattina, quando mi rivedeva, mi domandava chi ero e come mai avevo dormito in casa loro ecc. Ma questa è un'altra storia. Ciò che mi interessa ora è che la figlia voleva sbarazzarsi della madre, voleva che il Municipio la inviasse a sue spese nel manicomio provinciale e perciò la trattava in modo così aspro e scellerato da vedere di costringerla a commettere qualche grave eccesso per aver modo di affermarne la pericolosità. La vecchina sempre diceva alla figlia che le parlava col Voi secondo il costume: "dammi del tu, e trattami bene!"...

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1 L'orbettino (Anguis fragilis) è un piccolo rettile, lungo fino a 40 cm. del tutto inoffensivo. Ha il corpo cilindrico, privo di coda, e occhi piccoli circondati da palpebre.

n: ANTONIO GRAMSCI, Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio e Elsa Fubini. Introduzione e note di Sebastiano Vassalli, Giulio Einaudi Editore, Torino 1977

pasolini sulla tomba di gramsciTornato a Ghilarza dal carcere, Francesco Gramsci non ebbe, soprattutto nei primi tempi, vita facile. Usciva pochissimo evitando di incontrare la gente: l'umiliazione per la disavventura patita gli pesava, né aveva un qualsiasi lavoro. L'impossibilità di accesso ai pubblici impieghi (solo più tardi sarà riabilitato) era di grave impedimento alla reintegrazione nella vita attiva, perché al di fuori di quegli uffici le occasioni di lavoro mancavano. Aveva continuato a vivere dunque da segregato. I ghilarzesi però guardavano a lui con simpatia. Spietati con chiunque si fosse meritato il discredito, nondimeno avvertivano che nei confronti di Francesco Gramsci, dato lo sfondo politico della sua disgrazia, si era un po' troppo calcata la mano, e il sospetto di ingiustizia li spingeva a manifestare solidarietà per chi l'aveva sofferta. Lo ammisero al Circolo di lettura, ambiente chiuso e con soci rigorosamente selezionati. Dopo che fu costituita una mutua per l'assicurazione del bestiame bovino, gliene affidarono la segreteria. Venne la riabilitazione e, favorito dai suoi studi universitari in legge, potè fare il patrocinante in conciliatura. Volentieri i ghilarzesi gli fornivano lavoro. Era una buona pasta. La sua compagnia allietava. Di esuberanza meridionale, intelligente, umano, era il compagno che a tutti piaceva, la sera, avere al tavolo del quintiglio. Otterrà infine un posto di amanuense al catasto, e con i magri proventi di questo impiego tirerà avanti per tutta la vita.

Naturalmente in famiglia, dopo il suo ritorno, l'aria era cambiata. Continuavano ad essere assillanti, però, i problemi pratici: prima per la forzata inattività del signor Ciccillo e poi per la modestia dei suoi guadagni, appena trovato il lavoro. Gennaro, andato a Torino per il servizio di leva, non poteva più dare l'aiuto di prima. Anche Mario era fuori casa: nel 1904, dopo aver finito le elementari, era entrato nel seminario di Oristano. Dei maschi, portava soldi a casa, dunque, il solo Antonio. Carlo, bambino ancora, frequentava le prime classi elementari. Poi qualcosa riuscivano a guadagnare Peppina Marcias con lavori di cucito e Grazietta ed Emma sferruzzando su calze, maglie e sciarpe che vendevano. Solo verso la fine del 1905, Francesco e Peppina, fatti i conti, conclusero che, magari con nuovi sacrifici, avrebbero potuto mandare Antonio al ginnasio di Santulussurgiu. Nei due anni trascorsi a Ghilarza lontano dai banchi scolastici, il ragazzo s'era preparato da sé e con qualche lezione privata. Ora, vicino ai quindici anni, pensava di potersi iscrivere direttamente alla terza ginnasiale. Nell'istituto non gli fecero difficoltà: era una scuola comunale, non di stato. Così Antonio riprese gli studi regolari, anche se, come vedremo, di regolarità ben relativa, date le precarie condizioni di quel ginnasio.

Santulussurgiu dista da Ghilarza diciotto chilometri. C'è una corona stretta di monti, e sui bordi del catino sta il paese, uguale, per disposizione, a qualcosa di costruito sulla bocca di un vulcano. Verso metà secolo, due possidenti, Pietro Paolo Carta Ledda e Giovanni Andrea Meloni, avevano lasciato in anni diversi i loro beni agli Scolopi, all'espressa condizione che i congregati se ne servissero per istituire in paese « le scuole di latinità fino alla rettorica inclusiva ». Nell'ipotesi di scioglimento dell'ordine, l'amministrazione dei lasciti era affidata, per lo stesso fine, al Consiglio comunale. In effetti, nel 1866, gli Scolopi dovettero andarsene: cominciò quell'anno la lunga controversia tra il Comune di Santulussurgiu e il demanio statale, liquidatore dell'asse ecclesiastico, finché la vertenza non venne chiusa da un decreto regio nel 1901. Il ginnasio comunale aprì i battenti sùbito dopo. In quali condizioni?

Antonio Gramsci lo ricorda come « un ginnasio in verità molto scalcinato », « un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi ». Andando a consultare i registri dove sono verbalizzate le sedute del consiglio d'amministrazione dell'istituto, si scopre che il giudizio non pecca di eccessiva severità, ed anzi molte sono le testimonianze dirette anche più gravi. Ecco ad esempio ciò che fu costretto a rilevare il presidente teologo Francesco Porcu nella seduta del 4 marzo 1905 (Gramsci sarebbe venuto a Santulussurgiu alcuni mesi dopo): « Due degli insegnanti di questo ginnasio sono sforniti dei titoli che li abilitino all'insegnamento. Per due anni consecutivi, vennero i medesimi mantenuti nel posto loro conferito, nella speranza che essi pensassero a regolarizzare la loro posizione. Non essendo ciò avvenuto », concludeva il presidente, « è il caso di bandire ora il concorso pel prossimo venturo anno scolastico 1905-6 » (il primo anno di frequenza di Gramsci). In realtà il concorso venne bandito, ma la desiderata partecipazione di molti buoni insegnanti non ci fu, e, per giunta, alcuni di quelli finiti ai primi posti della graduatoria disertarono. Il futuro segretario della Camera del lavoro di Sassari, Massimo Stara Serra, destinato alla classe di Gramsci, presentò le dimissioni dopo appena un paio di settimane. Chi avrebbe dovuto subentrargli, il milanese Alfonso Franchini, chiese per venire a Santulussurgiu un anticipo. Non venne ugualmente. E solo il 7 febbraio, ad anno scolastico ben avanzato, Antonio cominciò ad avere lezioni di materie letterarie da due supplenti. Poi un ingegnere insegnava le materie scientifiche e la lingua francese. Per tutt'e tre gli anni del ginnasio, Antonio avrà questi insegnanti. Con quale profitto sappiamo da una lettera dal carcere: « Io avevo spiccatissime tendenze per le scienze esatte e per la matematica, da ragazzo. Le ho perdute durante gli studi ginnasiali, perché non ho avuto insegnanti che valessero un poco più di un fico secco ». Era stato del resto un consigliere d'amministrazione della scuola, il dottor Giampietro Meloni, a denunciare nella seduta del 21 settembre 1906 (Gramsci aveva già frequentato la terza ginnasiale): « I risultati finora ottenuti da questo ginnasio sono stati purtroppo sempre meschinissimi ». Il consigliere giudicava addirittura vantaggiosa per tutti la chiusura dell'istituto e arrivò a proporre in votazione un ordine del giorno così formulato: « L'amministrazione, riconosciuto che il ginnasio non funzionò mai bene... delibera di chiudere per tre o quattro anni ». L'ordine del giorno fu respinto, e in un modo o nell'altro, a strappi e a mozzichi, Antonio Gramsci potè comunque frequentare sino alla quinta ginnasiale. L'ultimo anno, a fine dicembre le lezioni non erano ancora cominciate. I professori, restii a venirsene a Santulussurgiu, domandavano un rinvio dopo l'altro, e il presidente, obbligato a subire, non sapeva più a che santo votarsi. Infine, ricaviamo sempre dal verbale, concluse:

Si dovrà far venire i professori anche in ritardo... Gli alunni ne avranno sempre un vantaggio, giacché per loro sarebbe ormai impossibile avere l'ammissione in altri istituti. Del resto, altre volte questo ginnasio si è aperto in gennaio o in febbraio, e non potrebbe sembrare strano se oggi per qualche settimana mancano i professori.

La poca puntualità e la dubbia scienza dei professori non erano evidentemente le condizioni ideali perché Antonio Gramsci recuperasse il tempo perduto a Ghilarza nei due anni dopo la licenza elementare. E ancora, ad aggravare il disagio degli studenti, specie di quelli in non buona salute, come Antonio, contribuiva l'insalubrità dei locali dove le lezioni si svolgevano. Il ginnasio comunale Carta-Meloni, sappiamo dal consigliere d'amministrazione dottor Giomaria Manca, si era trasferito dagli « ambienti malsani del convento degli ex Minori Osservanti » ad una casa d'affitto; e qui l'istituto continuava ad essere in condizioni « deplorevoli », « collocato in ambienti malsani e alquanto ristretti e non sufficienti ai bisogni della scuola ».

Poi non è che Antonio, uscendo di scuola, trovasse a casa un ambiente migliore. Abitava nel rione Sa Murighessa, pensionante d'una contadina di mezza età, Giulia Obinu, che era stata domestica del medico del paese: « Pagavo cinque lire mensili per l'alloggio, la biancheria del letto e la cucinatura della molto frugale mensa ». Questa Giulia Obinu « aveva una vecchia madre un po' scema, ma non pazza, che appunto era la mia cuoca e governante, la quale ogni mattina, quando mi rivedeva, mi domandava chi ero e come mai avevo dormito in casa loro eccetera ». A parte lo svanimento della vecchia, l'aria non doveva essere molto allegra, in questa casa, e ciò per il caratterino della ex domestica, impuntata a sbarazzarsi della madre: « Voleva che il Municipio la inviasse a sue spese nel Manicomio provinciale e perciò la trattava in modo così aspro e scellerato da vedere di costringerla a commettere qualche grave eccesso per aver modo di affermarne la pericolosità. La vecchia sempre diceva alla figlia che le parlava col lei secondo il costume: Dammi del tu, e trattami bene! ».

Capitava abbastanza di frequente che Antonio, frastornato dalle scenate, se ne andasse a studiare in casa d'amici. Riusciva simpatico a tutti. Il ragionier Marco Massidda, suo compagno di banco, ricorda: « Era un giovane tranquillo e di buon cuore ed era felice di aiutare i compagni. È stato sempre il primo della classe in tutte le materie, e nei componimenti era meraviglioso » (ma, a proposito dei componimenti d'allora, è forse l'affetto a influenzare il giudizio).

Antonio veniva a Santulussurgiu il lunedì mattina su un carrozzone con quattro cavalli, due tra le stanghe e due liberi dietro per il cambio a metà percorso; tornava a Ghilarza il sabato, qualche volta a piedi, e magari con rischio, essendo quella zona, allora non meno d'oggi, teatro d'operazione di banditi. Vengono a svernarci i pastori delle Barbagie, e c'è tra Santulussurgiu e Ghilarza un'area di traffico degli abigeatari dai pascoli di pianura del Campidano oristanese su verso Bòrore. Mai Gramsci, ad ogni modo, ebbe fastidi, a parte l'avventura che egli stesso ricorderà in una lettera a Tania:

Ti voglio raccontare un episodio quasi natalizio della mia fanciullezza, che ti divertirà e ti darà un tratto caratteristico della vita dalle mie parti. ...Con un altro ragazzo, per guadagnare ventiquattro ore in famiglia, ci mettemmo in strada a piedi il dopopranzo del 23 dicembre invece di aspettare la diligenza del mattino seguente. Cammina cammina, eravamo a circa metà viaggio, in un posto completamente deserto e solitario; a sinistra, un centinaio di metri dalla strada, si allungava una fila di pioppi con delle boscaglie di lentischi. Ci spararono un primo colpo di fucile in alto sulla testa; la pallottola fischiò ad una decina di metri in alto. Credemmo a un colpo casuale e continuammo tranquilli. Un secondo e un terzo colpo più bassi ci avvertirono sùbito che eravamo proprio presi di mira e allora ci buttammo nella cunetta, rimanendo appiattati un pezzo. Quando provammo a sollevarci, un altro colpo e così per circa due ore con una dozzina di colpi che ci inseguivano, mentre ci allontanavamo strisciando, ogni volta che tentavamo di ritornare sulla strada. Certamente era una comitiva di buontemponi che voleva divertirsi a spaventarci, ma che bello scherzo, eh? Arrivammo a casa a notte buia, discretamente stanchi e infangati e non raccontammo la storia a nessuno, per non spaventare la famiglia, ma non ci spaventammo gran che, perché alle prossime vacanze di carnevale il viaggio a piedi fu ripetuto senza incidenti di sorta...

A Ghilarza i sabati di Antonio si aprivano regolarmente con un po' di feste, un rimprovero materno e una lavata di testa da parte del padre.

Il rimprovero era per l'uso fatto a Santulussurgiu delle provviste settimanali. Di continuo si veniva a sapere in famiglia che Nino, desiderando comprare libri e giornali, vendeva un po' delle sue scorte (pasta, olio, formaggio e simili) a gente del luogo. Questo la mamma non riusciva a perdonarglielo. Chissà in quali condizioni, non si stancava mai di ripetergli, si sarebbe ridotto, lui così malaticcio, a non nutrirsi in modo conveniente.

Le lavate di testa erano per certa stampa sovversiva che Francesco Gramsci, inorridito, vedeva tra le mani del figlio. Quei giornali e quegli opuscoli venivano da Torino. Gennaro, già avviato a simpatizzare per le nuove idee quando a Ghilarza lavorava nel catasto con i giovani tecnici arrivati da regioni progredite, faceva adesso il soldato nella città più rossa d'Italia; e con il fervore di tutti i neofiti, via via che la sua adesione al socialismo diventava più convinta, era indotto a cercar proseliti un po' dappertutto, e naturalmente anche in famiglia. Antonio, il cui gusto per la lettura era cresciuto con gli anni, i giornali e gli opuscoli mandati da Gennaro li chiedeva sùbito, appena arrivato a casa il sabato sera. Di qua le dispute con il padre. Tentava di cavarsela celiando. « È proprio vero », gli diceva, « che discendi dai Borboni ». Francesco aveva, non casualmente, il nome dell'ultimo re delle Due Sicilie, Francesco II. Era nato a Gaeta nel marzo del 1860, poco prima che l'esercito italiano la cingesse d'assedio, e il colonnello della gendarmeria borbonica Gennaro Gramsci, suo padre, era lì a difendere accanitamente l'ultimo presidio dei Borboni contro le truppe del generale Cialdini1. Raccontavano in famiglia che, durante l'assedio di Gaeta, nonna Teresa Gonzales, avendo Francesco di pochi mesi in braccio, fuggì dalla città assediata verso Formia, traversando a piedi le linee del Cialdini. A parte la formazione familiare, il conservatorismo di Francesco Gramsci discendeva anche da altre circostanze. Suo fratello Nicolino era stato a Caserta istruttore di Vittorio Emanuele III, e lui stesso un giorno lo aveva conosciuto. Mai più avrebbe dimenticato l'emozione provata sentendosi chiamare per nome e avendo la mano stretta dall'augusto erede al trono. Aveva in casa la fotografia di un cavallo: era il purosangue dato in dono dal futuro re d'Italia a Nicolino. Quella fotografia suscitava in lui orgoglio e pensieri di rispetto per la dinastia sovrana. Figurarsi lo sbigottimento da cui era preso nel vedere i suoi giovani figli disposti a lasciarsi intossicare dalla stampa sovversiva. Si deve anche aggiungere che allora esporsi con idee socialiste significava, al minimo, avere una scheda in questura. E il signor Ciccillo, scottato dagli anni passati in carcere per cose delle quali probabilmente nessuno si sarebbe occupato se non ci fosse stata di mezzo la politica, aveva assai poca voglia di rivedere in casa lucerne di carabinieri e baffi di poliziotti a causa dei figli sovversivi. La sua autorità paterna era però in crisi, dopo la disavventura giudiziaria. Per evitare le discussioni, Antonio chiese al postino che l'« Avanti! » e il resto del materiale inviato da Gennaro gli venissero consegnati personalmente, di nascosto dal padre, e di politica in casa si parlò sempre meno.

Se ne riparlò, ma di nascosto, dopo il ritorno di Gennaro, che intanto, finito il servizio di leva, aveva ripreso il suo lavoro al catasto. La famiglia era nuovamente tutta unita. Mario, pur sapendo di dare un grosso dispiacere alla mamma, aveva lasciato la tonaca di seminarista. Non se la sentiva di continuare in quegli studi. « Voglio sposarmi » diceva. « Io l'idea di farmi prete non ce l'ho. Inutile continuare. Mandateci Nino in seminario, casomai. Lui alle ragazze non ci pensa e il prete può farlo ».

Nino andò a Oristano a prendersi la licenza ginnasiale. Era l'estate del 1908; aveva diciassette anni e mezzo. Non poteva certo aspettarsi, dopo i due anni di preparazione privata a Ghilarza e gli avventurosi anni ginnasiali a Santulussurgiu, un esito particolarmente brillante. In luglio, due materie, matematica e scienze, neanche le diede. L'esame nella terza materia insegnata a Santulussurgiu dall'ingegnere, il francese, si risolse in una catastrofe: il voto fu tre. Riscosse invece voti tranquilli in tutto il resto (darà a settembre, e sarà promosso, il solo francese e le due materie rinviate). Prese dunque a luglio sei nello scritto d'italiano e sette nell'orale, sei nelle due versioni di latino e sette nell'orale, sette in geografia e, cosa pacifica, otto in storia. Ben da parecchio, le sue letture fuori dai libri scolastici erano in prevalenza orientate alla storia. Ricorderà la sua passione di ragazzo in una lettera al figlio Delio: « Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi, e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si riuniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa ».

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1 « Mio nonno », scriverà Gramsci, « era proprio colonnello della gendarmeria borbonica e probabilmente fu tra quelli che arrestarono lo Spaventa antiborbonico e fautore di Carlo Alberto ».

In: GIUSEPPE FIORI, Vita di Antonio Gramsci, Capitolo quinto, Universale Laterza, IV Edizione, Bari, 1973, pp. 42 - 49.

Gramsci S LAntonio Gramsci (nato ad Ales il 22 gennaio 1891 - morto a Roma il 27 aprile 1937).

Il padre Francesco era impiegato dell'Ufficio del Registro.

La madre si chiamava Giuseppina Marcias.

Quarto di sette figli. Frequentò un asilo di suore a Sorgono (NU), dove, in seguito ad una caduta, si procurò una deformazione fisica.

Frequentò le scuole elementari a Ghilarza e dal 1905 al 1908 frequentò le ultime classi del ginnasio a Santu Lussurgiu (OR) dove viveva in una casa contadina.

Si iscrive poi al liceo Dettori di Cagliari e si diploma nel 1911. In seguito vince una borsa di studio del Collegio Carlo Alberto di Torino e si iscrive alla facoltà di lettere dove seguì le lezioni di U. Cosmo, A. Farinelli, e L. Einaudi, approfondendo gli studi di glottologia con M. Bartoli.

Contemporaneamente si iscrive al partito socialista di cui divenne segretario della locale federazione nel 1917, e collaborò al "Grido del popolo" e, dal 1916, all'«Avanti!» soprattutto come critico teatrale.

Schieratosi a favore della linea di Lenin, insieme con Togliatti, Terracini e Tasca fondò nel 1919 il settimanale "Ordine Nuovo", a sostegno della strategia dei consigli di fabbrica, organismo di autodecisione proletaria che, in caso di situazione rivoluzionaria avrebbero dovuto assumere il ruolo dei soviet.

L'insuccesso di tali organismi, in occasione dello sciopero generale e dell'occupazione delle fabbriche del 1920, spinse Gramsci e il suo gruppo a porsi il problema della creazione di un partito rivoluzionario all'avanguardia del proletariato.

Dalla scissione del gruppo gramsciano di Ordine Nuovo e del gruppo bordighiano dei soviet del partito socialista nacque a Livorno, nel 1921 il Partito Comunista d'Italia (aderente alla III Internazionale).

Nel 1922, recatosi a Mosca come capo della delegazione italiana al IV congresso dell'Internazionale, Gramsci sposò Giulia Schucht da cui ebbe due figli, Delio e Giuliano. Dopo un soggiorno a Vienna nel 1923, per conto dell'Internazionale, Gramsci, eletto deputato rientrò nel 1924 in Italia dove condusse una strenua lotta contro il fascismo e contemporaneamente, con l'appoggio dell'Internazionale, rafforzò la posizione del proprio gruppo all'interno del partito, conquistandone definitivamente la dirigenza al Congresso di Lione nel 1926.

Ma lo scioglimento di tutti i partiti e la rigida applicazione delle leggi eccezionali fasciste lo portarono lo stesso anno all'arresto. Condannato a 5 anni di confino a Ustica, fu poi deferito al Tribunale speciale che lo condannò a 20 anni e 4 mesi di reclusione.

Tuttavia, nonostante i disagi e le privazioni sofferte nella casa di pena di Turi, presso Bari, e il precario stato di salute, Gramsci rifiutò di inoltrare domanda di grazia, concentrandosi in un attività di elaborazione teorica dei principi del marxismo. Nel 1934 le pressioni di un comitato internazionale antifascista di cui facevano parte Gorkij, Rolland, Barbusse e l'arcivescovo di Cantebury, indussero il governo fascista a trasferire Gramsci al carcere-ospedale di Formia e poi alla clinica "Quisisana" di Roma dove morì.

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